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238 ODISSEA

ché sono sacre, queste giovenche, e le pecore pingui
320a un Dio possente, al Sole che tutto vede e tutto ode».
     Dissi. E la mia parola convinse quelle anime prodi.
E per un mese Noto soffiò senza tregua; né alcuno
sorse degli altri venti: spiravan sempre Euro e Noto.
Ora, sinché durò vivanda e purpureo vino,
325per il timor della vita, nessuno toccò le giovenche;
e quando poi dal legno consunte fûr tutte le dapi,
necessità li spinse, che andassero attorno, cacciando
pesci, od uccelli, o qual preda cadesse lor sotto le mani.
     Ora, nell’isola un dí m’addentrai: ché volevo una prece
330volgere ai Numi, se alcuno m’addita la via del ritorno.
E, come giunto fui lontano dai cari compagni,
in una parte al riparo dai venti, deterse le mani,
pregai tutti i Celesti, quanti hanno dimora in Olimpo.
Quelli, soave sonno profusero a me su le ciglia;
335ed un consiglio intanto Euríloco diede ai compagni:
«Datemi retta, per quanto prostrati dai mali, o compagni.
Certo, odïosa per l’uomo tapino è ogni specie di morte;
ma la piú misera fine, di certo, é morire di fame.
Dunque, su via, le giovenche del Sole pigliam, le piú grasse
340ed immoliamole ai Numi che hanno dimora in Olimpo.
Ché se in Itaca poi torneremo, alla terra natale,
súbito allora al Sole che il cielo traversa, un gran tempio
innalzeremo, e in esso porrem tante statue belle.
Ché se, sdegnato poi per le vacche dai corni superbi,
345voglia vederci morti, né alcuno dei Numi contrasti,
meglio ingozzare l’acqua, morire, una volta, alla fine,
che striminzire piú a lungo, restando in quest’isola grama».
     Queste parole disse Euríloco; e niuno si oppose.