E sono morta anch’io cosí, la mia sorte ho compiuta.
Né dentro casa la Diva che scaglia diritte le frecce
m’ha con le miti saette percossa, e rapita dai vivi, 200né pure sopra a me piombato è veruno dei morbi
che via rapiscon l’alme dai corpi con tabe odiosa;
bensí la brama di te, l’affanno per te, l’accorato
amor di te, la mia vita distrussero, o nobile Ulisse».
Cosí parlava. E allora mi corse alla mente la brama 205di stringere al mio cuore la madre defunta. Tre volte
io mi lanciai, come dentro spingevami il cuore, all’abbraccio
e tre dalle mie mani svolò, come un’ombra od un sogno.
Tanto piú acuta allora doglianza m’intesi nel cuore;
e a lei parlai, mi volsi col volo di queste parole: 210«Madre mia, ché non resti, quand’io pur ti voglio abbracciare,
sicché, pur nell’Averno, gittandoti al collo le braccia,
l’amara gioia entrambi godere possiamo del pianto?
Oppure a me la bella Persèfone un’ombra ha mandata,
perché piú ancora io debba lagnarmi, distruggermi il cuore?». 215Io cosí dissi; e cosí rispose la nobile madre:
«Ahimè, figliuolo mio, sventurato piú d’ogni mortale,
te non inganna la bella Persèfone figlia di Giove.
Ma questa è dei mortali, se scendon sotterra, la sorte.
Ché nervi piú non hanno che reggano l’ossa e le carni; 220ma queste e quelli strugge la furia del fuoco possente
rutilo, appena l’alma lasciato ha lo scheletro bianco;
e via l’alma svolazza per l’ètere, simile a sogno.
Ma su, presto, alla luce di nuovo la brama rivolgi,
e apprendi ciò, ché tutto ridirlo tu possa alla sposa». 225Cosí noi mutavamo parole. Ed apparvero donne —
ché le spingea la bella Persèfone figlia di Giove —