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CANTO X 193

290l’erba ch’ora io ti darò, salutifera. Ora odi anche il resto.
Come toccato Circe t’avrà con la lunga sua verga,
súbito tu dal fianco snudata l’aguzza tua spada,
scàgliati sopra di lei, sí come volessi sgozzarla.
Essa, sgomenta, invito allor ti farà nel suo letto;
295né rifiutare tu dovrai della Diva l’amplesso,
se i tuoi compagni vuoi che sciolga, e che bene ti tratti.
Chiedile prima però che il gran giuramento dei Numi
ella ti presti, che contro di te non disegna alcun danno;
ché, disarmato e fiacco, non debba poi farti del male».
     300Quando ebbe detto cosí, un’erba mi die’ l’Argicida,
che la divelse dal suolo, mi disse qual n’era il potere.
Negra essa avea la radice, sembravano latte i suoi fiori:
moli la chiamano i Numi: né facile cosa è sbarbarla
per i mortali; ma tutto concesso è ai signori del cielo.
305Quindi, per mezzo a le selve dell’isola, Ermète a l’Olimpo
fece ritorno; ed io mi volsi alla casa di Circe;
e m’ondeggiava in vario tumulto, appressandomi, il cuore.
Della ricciuta Dea ristetti alla soglia. E qui, fermo,
un grido alto levai. Udí la mia voce la Diva,
310súbito fuori uscí, le lucide porte dischiuse,
e mi chiamò: col cruccio nel cuor, tenni dietro ai suoi passi.
Essa in un trono mi fece sedere, dai chiovi d’argento,
istorïato, ricco; né ai piedi mancò lo sgabello.
Quindi, in un vaso d’oro mi pose un intriso, da berlo;
315e, macchinando il mio male, l’aveva d’un farmaco infuso.
Or, poi che l’ebbi bevuto, ma nulla era stato l’incanto,
su me batté la verga, volgendomi queste parole:
«Va’ nel porcile, sdràiati adesso con gli altri compagni!»
     Disse. Ma io, sguainata dal fianco l’aguzza mia spada,