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CANTO V 101

e nel suo cruccio, cosí favellava al magnanimo spirto:
«Misero, misero me! Quale dunque sarà la mia fine?
Temo che quanto la Diva predetto m’avea, tutto avvenga,
quando mi disse che prima di giungere al suolo nativo
290tanti dovrei soffrire travagli: ecco, tutto s’avvera!
Quanti mai nugoli Giove raduna a recingere il cielo!
Come sconvolge i marosi! Da tutte le parti de l’ètra
come le raffiche incalzano! È certa l’orribile morte!
Tre, quattro volte beati quei Danai che a pro’ degli Atridi,
295sotto le mura d’Ilio pugnando, trovaron la morte!
Deh!, fossi io pure caduto, deh!, còlto m’avesse il destino
quella giornata che tante zagaglie di bronzo i Troiani
contro di me saettavano, intorno al morente Pelide!
Dato sepolcro m’avrebber gli Achei, la mia fama esaltata.
300Ora il destino mi vuole rapito da ignobile morte».
     Mentre diceva cosí, con terribile cozzo un gran flutto
su lui piombò dall’alto, mulinò la zattera in giro.
E da la zattera ei fu sbalzato lontano: il timone
lasciò sfuggir da le mani: di venti un miscuglio, battendo
305con terribile raffica l’albero a mezzo, lo franse,
via per il mare disperse lontano la vela e l’antenna.
Ben lungo tempo Ulisse sott’acqua restò; né poteva
risollevare la testa di sotto la furia dei gorghi,
tanto era grave la veste che a lui die’ la diva Calipso.
310Risommò pure, alla fine, sputò la salsuggine amara,
che da la bocca e le nari sgorgava con fitto gorgoglio,
né si scordò della zatta, per quanto stremato di forze:
dietro, fra l’urto dei flutti, le corse, le man’ su vi strinse,
ci si distese nel mezzo, schivando il destino di morte.
315Per le correnti qua e là lo portavano i grandi marosi.