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PREFAZIONE XIII


Uomo. E non ha veruno degli irrigidimenti degli eroi convenzionali. Valoroso e coraggioso come nessun altro dei viventi — e lo dimostra nell’ora della gara o della pugna — non cerca però né pugne né gare. Ed è marito e padre esemplare e il pensiero di Penelope lo assilla continuo. Ma quando gli si offre un’ora di gioia, la coglie senza pensarci due volte.

E infine trionfa. E dopo il trionfo, che consentirebbe il riposo, riprende la sua vita errabonda. E il premio supremo è, ahimè!, la morte. Ma una morte serena, cullata dalla felicità che l’eroe ha procurato agli altri uomini:

                                             dal mare, una morte
placida a te verrà, che blanda e soave t’uccida,
fiaccato già da mite vecchiezza. E felici d’attorno
popoli a te saranno.


Questa è la favola d’Ulisse. Ed è, insieme, la favola dell’umanità, con le sue perpetue lotte, le poche gioie, i molti dolori, la vittoria coronata dalla morte. Ogni uomo legge in essa la propria favola triste. E qui risiede il fascino supremo del libro: per questo tutti preferiscono l’Odissea all’Iliade, sebbene questa nelle parti piú ispirate si elevi ad un clima d’ispirazione a cui non giunge il poema d’Ulisse.

Tutti gli altri personaggi dell’Odissea sono a gran distanza dal protagonista. Ma partecipano anch’essi la sua umanità, la sua semplicità. Chi non può leggere il testo — ed anche piú d’uno di quelli che possono leggerlo — deve spogliare le loro parole dalla convenzionale fanfara epica che suona, piú o meno, in tutte le versioni, e che, per riflesso, si crede di sentir suonare anche negli esametri greci; e per la giustezza e la verità del loro accento li sentirà moderni, contem-