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CANTO III 43

Qui cadde pure il figlio mio prode, che macchia non ebbe,
110Antiloco, veloce nel corso, e temprato alla pugna.
E molte altre sciagure patimmo, oltre a queste. E chi mai
tutte narrarle potrebbe, fra quanti sono uomini al mondo?
Neppur se presso a me restando cinque anni, sei anni,
chiedessi quanti mali patiron gli Achivi divini:
115ché tediato prima faresti ritorno alla patria.
Nove anni li stringemmo d’assedio, molteplici frodi
tramando a loro danno. E infine ci arrise il Croníde.
Quivi nessuno ardia gareggiar con Ulisse di senno,
ché di gran lunga il primo, nel tesser molteplici inganni
120era quell’uomo divino, tuo padre, se tu, come dici,
fosti da lui generato. Ti guardo, e rispetto m’invade:
ché nel parlare, a lui davvero somigli. Nessuno
s’aspetterebbe parole sí scaltre da un giovin tuo pari.
Or, sin che Ulisse ed io lí fummo, non mai nei consigli,
125nei parlamenti mai non avemmo parere discorde;
ma con un solo avviso nel cuore e nel saggio pensiero,
favellavamo agli Argivi, per fare che il meglio seguisse.
Or, poi che avemmo abbattuta la rocca di Priamo eccelsa,
Giove decise che lutto cogliesse gli Achivi al ritorno,
130però che tutti quanti non erano saggi né giusti.
Molti di loro perciò soccombettero al triste destino,
per la funesta furia d’Atena dai ceruli sguardi,
che la discordia accese tra i duci figliuoli d’Atrèo.
A parlamento quelli chiamarono tutti gli Achivi,
135stolidamente, contro l’usanza, al tramonto del sole;
sicché, vennero gravi di vino i figliuoli d’Acaia.
Dissero allora perché radunate avevan le schiere.
E Menelao consigliava che tutti pensasser gli Achivi