di mezzi calzoni di panno, del colore della giacchetta, stretti intorno alla vita da una cintura munita d’una gran borchia d’argento cesellata; e infine la cravatta rossa e le calze di lana fino al ginocchio. In somma, un po’ preti dalla cintura in giù, e dalla cintura in su un po’ arlecchini. Uno di essi aveva per bottoni delle monete: uso assai comune. Le donne avevano un cappello di paglia della forma d’un cono tronco, altissimo, che pareva un secchiolino rovesciato, intorno al quale svolazzavano dei larghi nastri azzurri; una veste di color scuro aperta sul petto che lasciava vedere una camicia bianca ricamata; le braccia nude dal gomito in giù; e due enormi orecchini d’oro o dorati di varie forme stravaganti, che sporgevano innanzi fin sulle guancie. Per quanto mi sforzassi di fare come fa Vittor Ugo in viaggio, di ammirar tutto come un bruto, non riuscii a persuadermi che quelle foggie di vestire fossero belle. Ma a questa sorta di contrarietà ero preparato. Sapevo che in Olanda ci si va per vedere del nuovo più che del bello, e del buono altrettanto che del nuovo; e perciò m’ero predisposto più all’osservazione che all’entusiasmo. E di quella prima impressione poco grata al mio gusto pittoresco, mi confortai pensando che quei contadini sapevano certamente tutti leggere e scrivere, che forse la sera prima avevano studiato a memoria una canzone del loro grande poeta Jacob Catz, e che probabilmente si recavano col loro bravo programma in tasca a qualche convegno rurale, dove avrebbero preso la