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366 ZAANDAM.

vento di grande altezza, coloriti pure di verde e listati di bianco, o bianchì e listati di verde, con le braccia dipinte come aste di bandiere e la rotella dell’asse dorata e ornata di girandole multicolori; campanili verdi e inverniciati dal piede fino alla punta; chiesuole che paion teatri da fiera, scaccheggiate e orlate di tutte le tinte dell’arcobaleno. Ma questo è anche più strano: che gli edifizi, già piccini all’entrata del fiume, vanno scemando di grandezza via via che si procede, come se la popolazione fosse distribuita per ordine di statura, tanto che verso la fine non son più che casotti da sentinelle, stie, topaie, scatole, nascondigli, che paiono sporgenze d’una città sotterrata; un’architettura minuscola che è lì a dieci passi, e fa l’effetto di essere molto lontana; un tritume di città, un vero alveare umano, dove i bambini paiono colossi, e i gatti saltano dalla strada sui tetti; e là ancora ci son giardini occupati interamente da un sedile, chioschi capaci d’una persona sola, padiglioni grandi come ombrelli, e salici piangenti, e piccoli scali, e piccolissimi mulini a vento, e banderuole e fiori e colori.

Ma son proprio uomini che han fatto tutto codesto? — uno si domanda dinanzi a questo spettacolo. — E questa è una città davvero? E ci sarà ancora l’anno venturo? O non è stata fabbricata per una festa, e la settimana prossima sarà tutta scomposta e accatastata dentro il magazzino di un decoratore d’Amsterdam? Ah! burloni d’Olandesi!

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