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344 BROEK.

stecconati rossi e bianchi; finestre coi vetri orlati di due tre striscio di varii colori; e infine la più strana di tutte le stranezze: alberi col tronco tinto di color cilestrino dal piede fino al nodo dei rami!

Ridendo tra me di queste bizzarrie, arrivo a un ampio bacino, circondato d’alberi fitti e frondosi, di là dai quali, sulla sponda opposta, spunta un campanile. Guardo intorno: non c’è che un bambino sdraiato sull’erba. Gli domando: — Broek? — Si mette a ridere, e risponde: — Broek. — Allora guardo meglio e vedo brillare in mezzo al verde degli alberi dei colori così ciarlataneschi, così impertinenti, così arrabbiati, che mi sfugge un’esclamazione di stupore.

Giro intorno al bacino, passo sur un piccolo ponte di legno bianco come la neve, infilo una stradina, guardo.... Broek! Broek! Broek! Lo riconosco, non ci può esser dubbio, non può esser altro che Broek!

Immaginate un presepio fatto con casette di carta-pesta da un ragazzo di otto anni, una città fabbricata nella vetrina d’una bottega di giocattoli di Norimberga, un villaggio costrutto da un coreografo sul disegno d’un ventaglio chinese, una riunione di baracche di saltimbanchi arricchiti, un gruppo di villette fatte per servir da teatro di burattini, una fantasia d’un orientale ubriaco d’oppio, un qualche cosa che faccia pensare nello stesso tempo al Giappone, all’India, alla Tartaria, alla Svizzera, allo stile plateresco e al rococò Pompadour, e a quello degli edifici inzuccherati che mettono in