zelanda. 23

“Qui, in Zelanda,” mi disse colla serietà d’un maestro che fa la lezione, "le dighe, più ancora che nelle altre provincie, sono quistione di vita o di morte. A marea alta tutta la Zelanda rimane al di sotto delle acque. A ogni diga che si rompesse, sparirebbe un’isola, E il guaio è che qui la diga non deve soltanto resistere all’urto diretto dell’onda; ma ad un’altra forza anche più pericolosa. I fiumi si gettano verso il mare, il mare si getta contro i fiumi, e in questa lotta continua, si formano delle correnti basse che rodono la base delle dighe, sin che le fanno sprofondare tutt’a un tratto, come farebbe una mina ad un muro. Gli Zelandesi debbono stare continuamente all’erta. Quando una diga è in pericolo, ne fanno un’altra più addentro, e aspettano l’assalto delle acque dietro a questa, e così guadagnan tempo, e o rifanno la prima diga, continuano a dare addietro di fortezza in fortezza, o la corrente si svia e son salvi.”

“E non potrebbe darsi,” domandai sempre avido di notizie poetiche, “che un giorno la Zelanda non esistesse più?”

“Tutto il contrario,” mi rispose con mio rammarico; “può venire il giorno in cui la Zelanda non sia più arcipelago ma terraferma. La Schelda e la Mosa portano continuamente limo che rimane in fondo ai bracci del mare e che alzandosi a poco a poco ingrandisce le isole e chiude nella terra città e villaggi ch’erano sulla riva e avevano i loro porti. Axel, Goes, Veere, Arnemiuden, Middelburg, erano