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HAARLEM. 281

al segno da peritarsi a lasciarvi cadere la cenere del sigaro. Per lunghi tratti non s’incontra anima viva, o soltanto qualche ragazzina di dodici o quattordici anni, che va tutta sola alla scuola, coi capelli giù per le spalle e il libro sotto il braccio. Non si sente strepito d’officine, non rumore di carri, non grida di venditori. Tutta la città ha non so che apparenza di riserbo aristocratico e di pudica civetteria che desta in singolar modo la curiosità, e fa sì che si gira e si rigira senza mai stancarsi, come se a furia di girare si dovesse scoprire qualche gentile segreto che la città intera voglia tener celato agli stranieri.


A mezzogiorno si stende un bellissimo bosco di faggi, creduto un resto dell’immensa foresta che copriva anticamente una gran parte dell’Olanda; attraversato da viali, sparso di chioschi, di caffè, di casini di società, e aperto nel mezzo in un grazioso parco popolato di daini e di cervi. In un punto solitario ed ombroso, c’è un piccolo monumento posto, il 1823, in onore di Lorenzo Coster, il quale, giusta la leggenda, avrebbe tagliato là quei famosi rami di faggio, in cui incise le prime lettere. Girai per tutti i recessi oscuri del bosco, incontrai un ragazzo che mi salutò con un gentile Bonjour, voltando il viso dall’altra parte; domandai la strada a una ragazza dalla testa cerchiata d’oro che diventò rossa come un garofano; chiesi del fuoco a un contadino che leggeva la gazzetta; passai accanto a un’amaz-