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LEIDA. 261

quel paese di nascosto, e non ne uscì che dopo aver scontato il suo ardimento con nove mesi di prigionia, e fatto pagar colla testa ad alcuni mandarini la colpa d’averlo aiutato. Comunque sia, il Museo del dottor Siebold è forse la più bella collezione di quel genere che si trovi in Europa. Un’ora passata in quelle sale è un viaggio nel Giappone. Vi si segue la vita d’una famiglia giapponese per tutto il corso della giornata: dalla toeletta alla mensa, dalle visite allo spettacolo, dalla città alla campagna. Vi si trovan le case, i templi, gl’idoli, gli altari portatili, gli strumenti di musica, gli utensili di casa, gli arnesi dell’agricoltura, i vestiari degli operai e dei pescatori; candelieri di bronzo formati da una cicogna ritta sopra una tartaruga; vasi, gioielli, pugnali lavorati con una delicatezza prodigiosa; uccelli, tigri, conigli, bufali d’avorio riprodotti piuma a piuma, pelo a pelo, colla pazienza propria di quei popoli ingegnosi ed immobili. Fra le cose che mi rimasero più impresse, è una colossale faccia di Budda, che a primo aspetto mi fece dare addietro, e che mi par sempre di vedermi dinanzi, con quella mostruosa contrazione e quell’inesprimibile sguardo tra di riso, di delirio e di spasimo, che desta ad un tempo lo schifo e lo spavento. Dietro questa faccia di Budda vedo ancora le marionette dei teatri di Iava, vere creazioni di cervelli in delirio, su cui l’occhio si stanca e la mente si confonde: re, regine e guerrieri mostruosi, misti d’uomo, di bestia e di pianta, con braccia che finiscono in foglie, gambe che ter-