vasti laghi tempestosi, come mari che si toccavano l’un l’altro; paludi accanto a paludi; sterpeti
dietro sterpeti; immense foreste di pini, di quercie
e d’ontani, percorse da stormi di cavalli indomiti,
nelle quali, come dice la tradizione, si sarebbe potuto far delle leghe passando d’albero in albero
senza toccare la terra. Le baie profonde portavano
fin nel cuore del paese la furia delle tempeste boreali. Alcune provincie sparivano una volta all’anno
sotto le acque del mare, ed erano pianure fangose,
nè terra nè acqua, sulle quali non si poteva nè
camminare nè navigare. I grandi fiumi che non avevano inclinazione bastante per discendere al mare
erravano qua e là come incerti della via da seguire
e s’addormentavano in grandi stagni fra le sabbie
della costa. Era un paese sinistro, corso da venti
furiosi, flagellato da pioggie ostinate, velato da una
nebbia perpetua, nel quale non s’udiva che il muggito delle onde e le voci delle fiere e degli uccelli
marini. I primi popoli che ebbero il coraggio di
piantarvi le tende, dovettero innalzare colle proprie
mani dei monticciuoli di terra per salvarsi dagli
straripamenti dei fiumi e dalle invasioni dell’oceano,
e vivere su quelle alture come naufraghi su isole
solitarie, scendendo al ritirarsi delle acque per cercare un nutrimento nella pesca e nella caccia, e raccogliere le uova deposte dagli uccelli marini sulle
sabbie. Cesare, passando, nominò pel primo quei
popoli. Gli altri storici latini parlarono con pietoso
rispetto di que’ barbari intrepidi che vivevano su