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di don Sturzo, con lo stesso naso, diciamo pure, dantesco. La moglie dell’onorevole era andata in camera da letto per togliersi il cappellino e rassettarsi la tolettina gialla e marrone di raso e velo. Non le bastava, e continuava a darsi dei colpetti con due dita sui riccioli, sulle vesti, sulle frange come per constatare di volo d’avercele sempre appuntate addosso ai suoi vecchi ossicini. Il marito, lei, non la toccava con le sue manate affettuose: talvolta cominciava il gesto ma si fermava a cinque centimetri da lei, spaventato, e la sua mano calava su chiunque altro si trovasse a portata di mano con un ardore raddoppiato. In quelli arresti e pentimenti s’intuiva l’effetto d’una lunga serie di lezioni, intimazioni e minacce della sua, credo, legittima metà. E per quella faticata obbedienza il nostro augusto ospite mi diventò anche più simpatico. Ma mi vinse quando gridò con voce di comando: — Si va o non si va a tavola? L’automobile, caro cavaliere, dà appetito. Dirò meglio: mi aumenta l’appetito perchè i conduttori di anime devono essere tutti e sempre di stomaco buono. Fui tentato di chiedergli se quella frase doveva intendersi anche al morale, ma in quel punto il cameriere prestatoci dall’albergo della Luna spalancò la porta e annunciò a voce ferma, guardandoci in faccia, con un’autorità che mi piacque e mi confortò: – Il signor deputato è servito. – Temetti che l’ospite si lamentasse almeno di quel signore e di quel servito. Niente: continuava pure avviandosi e ridendo, a spiegare