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sette od otto, riesce sempre alla fine a laurearsi dottore. Cavaliere, invece, è un titolo che vi viene dagli altri, che gli altri vi offrono e donano; è la prova che il pubblico, il prossimo, le autorità sono costretti a riconoscervi una superiorità, o almeno alcune qualità non rare certo, magari non profonde, ma in ogni modo non comuni. I cavalieri saranno molte migliaia, ma rispetto ai quaranta milioni d’italiani sono sempre un’eletta minoranza. Quaranta milioni, su per giù, compresi gli abitanti delle nuove Provincie. A proposito, nel Trentino, nell’Istria i cavalieri, sia pure della Corona d’Italia, devono ancóra essere rari. Io che nel maggio 1915 m’ero giurato d’andare in Istria dopo la vittoria, in pellegrinaggio.... – Signor cavaliere.... – Poi, dottore è dottore, e basta: è un punto fermo. Invece cavaliere è una prima tappa, un augurio, un invito a salire: ufficiale, commendatore, grande ufficiale.... Vertigini. Io m’avvolgo spesso in questi giritondi d’ingenuità infantile e, se vi piace meglio, provinciale. So che è un gioco ma mi ci diverto, se posso dire, sul serio, e mi pare d’intravvedermi allo specchio con la faccia estatica dei ragazzi e dei gonzi seduti sui cavalli o le sirene di legno nelle giostre delle fiere, beati di girare e girare. È un’abitudine che ho presa quando avevo la condotta rurale e dovevo fare ogni giorno, tra andare e venire, due o tre ore di monotonissima strada seduto sul mio bagherino a guardare la coda del cavalluccio che mi trottava davanti tra le due stanghe gialle. Allora arzigogolavo