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Nestore ascoltava tranquillo e distratto, con quello sguardo ripiegato in dentro che hanno i ragazzi quando ascoltano pazientemente i grandi discutere di loro senza capirli. E io più m’angosciavo perchè vedevo Nestore magari condotto a scapaccioni alla sezione dei carabinieri o, peggio, preso di mira dal fucile di qualche sentinella. Glielo dissi per sperimentare le sanzioni penali dopo quelle morali. Alzò la testa, mi piantò in faccia i suoi occhietti di pepe, gli vidi balenare tra occhi e bocca per la prima volta quel sorriso di rispettosa compassione che poi, ahimè, m’ha fulminato tante altre volte, e: — I carabinieri e le sentinelle non vedono mai niente, – Nestore sentenziò. Aveva (me ne accorgo adesso nell’estate del 1920) giudicato il Governo e lo Stato. Ed era in età di anni dodici. Devo aggiungere che, almeno a notizia mia, Nestore non si prestò più a fare da postino agli amici e parenti degli ergastolani. Ma una domenica mattina lo vidi tornare con sua madre dalla messa vestito d’un bell’abito alla marinara di panno turchino, in testa un berretto sul cui nastro lessi stampate a lettere d’oro Duilio. Giacinta lo aveva vestito così con le quaranta lire ch’egli s’era, diremo, guadagnate, e gli aveva posto in fronte addirittura il nome d’un console romano vincitore dei Cartaginesi. Che potevo fare? Conoscevo il bilancio domestico: e tacqui. Del resto quell’anno Nestore riuscì finalmente a sgusciare in ginnasio. Ma fin dal primo mese