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rappresentava il comune, l’amministrazione comunale vittoriosa, il segno della deposizione, dopo dodici anni di trono. — Come va il Comune? Come va l’igiene! E la fabbrica delle balie come va? Aspetta, aspetta, e lo vedrai a spese tue che è più facile far venire il latte nelle mammelle d’una donna che i quattrini nelle casse d’un comune. Insomma: vi dimettete o non vi dimettete? Matteo si manteneva tranquillo e ossequioso. Fossero gli eretici discorsi uditi il giorno avanti a Poreta, fosse il desiderio di non compromettere per tanto poco la sua clientela borghese, cercava di sorridere ficcando il suo lungo collo dentro le spalle magre con un’aria malinconica di tartaruga che se ne infischia delle pedate. — Quand’è che vi dimettete? – Insistè Pópoli. Allora Matteo fu grande. Con una parola sola disarmò l’avversario e lo ammansì: — Magari domani, signor sindaco. Signor sindaco, signor sindaco: un assessore comunista, un assessore dell’amministrazione vincitrice lo chiamava sindaco, sindaco come ai bei tempi passati e, chi sa, avvenire. Pópoli si scosse, sorrise, s’accarezzò con la sinistra il mento ben raso, constatò con due dita che la sua cravatta e la spilla nella cravatta erano al loro posto, s’abbottonò la giacca col sussiego con cui un re raccoglie il suo manto di velluto, e girando lo sguardo su tutti noi ci annunciò: — Andiamo a prendere un vérmutte. Pago io. Devo pagare io.