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dei giapponesi e dei russi: queste guerre, non mi dite che sono da condannare e da abolire. Distraggono l’umanità e giovano alla sua salute. E speriamo che non finiscano mai. Anzi, sono contento di sapere che non finiranno mai. Ragionamenti questi, lo so, buoni per uomini mediocri come sono io, come sarebbe bene che nemmeno io fossi, come purtroppo sono tanti italiani, come sarebbe bene che tanti italiani non fossero, e come di certo non saranno più appena il Progresso finalmente comincerà ad agire. E tu, lettor mio, tra mezzo secolo ne potrai giudicare meglio di me: almeno, cioè, con un’esperienza di mezzo secolo più lunga della mia. Intanto il cielo s’era rischiarato, l’orizzonte allargato e, non sentendomi più solo, ricominciavo a provare, per fortuna, il pudore del mio angusto egoismo. Ma s’era arrivati e sul marciapiede della mia stazione vidi una bandiera rossa sopra un gruppo di giovanotti vestiti di scuro i quali, appena il treno si fermò, scoppiarono in applausi. Scesi e mi ricordai che tra quindici giorni vi sarebbero state le elezioni amministrative. A casa, un biglietto del sottoprefetto mi pregava di passare da lui appena tornato. Mi proposi d’andarvi la mattina dopo, ma la sera l’incontrai al Circolo. Il nuovo sottoprefetto era lungo, magro, vecchio, con un nobile nome piemontese, anzi con tre nomi: conte Negri Tibò di Valséssera. Devo dire che quando arrivò, a vederlo così vecchio, così nobile, e con tanti cognomi, i