Pagina:Ojetti - Mio figlio ferroviere.djvu/227

e quelle che m’aspettavano a casa, ero sicuro che per quattro ore non avrebbero potuto raggiungermi. In quella beata pace mi colse il pensiero di Nestore. Che avrebbe fatto Nestore se si fosse, come si suol dire, scatenata la reazione? Per quanto bene io, dopo tutto, voglia al mio unico figliolo, quel pensiero non mi sconvolse. Se nemmeno la guerra aveva mutato il mondo, se nemmeno l’imminenza della rivoluzione, come a Roma avevo visto, l’aveva mutato, anche dopo l’imminente reazione il mondo sarebbe, alla fine, rimasto tale e quale. E le persone agili come Nestore o come Cencina vi avrebbero sempre ritrovato il loro nido. La colpa era stata mia se m’ero lasciato rapire in estasi dalle promesse diffuse quand’era scoppiata la guerra. Era tempo di tornare filosofi, e rassegnati spettatori. Non t’ho mai detto, lettor mio, che io da molti anni ho l’abitudine di trascrivere sopra un libriccino i pensieri ed i motti che più mi piacciono quando leggo od ascolto; che cioè più mi si confanno. Ormai di questi libriccini ne ho sei o sette, ed uno sempre su me. Lo trassi di tasca e vi cercai le righe che potevano confortarmi in quella mia riconquistata placidità. Furono, nientemeno di Niccolò Machiavelli: “Mi pare che tutti li tempi tornino e che noi siamo sempre quelli medesimi”. Caro filosofo senza paura. Io povero mediconzolo più umile ed ignoto d’un filo d’erba, avrei osato baciarti su quelle tue gote tutt’ossa e mal rase, se mi ti fossi trovato in quel punto davanti. Ma sì, gli uomini, guerra o pace, rivoluzione o