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sul guardaportone. Infatti concluse la finta lettura con questa domanda: — Quando tu hai giustamente redarguito quei due, v’era gente sul portone? — Qualcuno è venuto dopo, alla fine. — Vedrai che i giornali stasera ne parleranno. — Non credo, – affermò Pazzotti ma così debolmente da mostrar che invece ci credeva e che il timore della pubblica stampa lo sconvolgeva. — In ogni modo restiamo intesi: tu mi fai un rapportino e io me ne occupo súbito. Le pause ormai si facevano lunghe e la conversazione era caduta in un tono minore di ite missa est. — Quanto al sussidio per l’ospedale..., – riprese con vigore il sottosegretario. — Alla cappella dell’ospedale, – corressi io. — Al sussidio per la cappella dell’ospedale, – continuò Sua Eccellenza, – il telegramma partirà subito, – allora soltanto lo lesse: – Ma non si tratta del tuo collegio, eh Pazzotti? Pazzotti si scosse dal letargo: — No, questa faccenda sta a cuore ad un mio amico e compagno carissimo, – ma parlava come in sogno. — Basta. A me basta che stia cuore a te. Eravamo sulla soglia. — A rivederla, ingegnere, – mi disse Sua Eccellenza stringendomi con effusione la destra tra le sue mani. — Dottore, – corressi, ma non mi badava più perchè Pazzotti era uscito e la porta si richiudeva sul mio naso.