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marmo. Di faccia a me una famiglia di popolani, beati, vestiti a festa, rotondi fiorosi e ingiojellati, padre, madre e tre figlioli, gustava alcune granite di limone intercalandole a cannoli colmi di crema e a risate tonanti appena la crema d’un cannolo al primo morso sprizzava via dall’altro capo: dolce immagine, se oso dire, della fuggevole felicità umana. Alla mamma, più che agli altri, per quel davanzale del petto, l’operazione riusciva difficile; ma non si scoraggiava, e divaricate le ginocchia e respinta con la destra tra loro la gonna, ormai s’era messa a mangiare a capo chino così che la crema sfuggendo cadesse sul pavimento. Tanto lesta era a voltare il cannolo dal capo traboccante e a ficcarselo in bocca che sposo e figli restavano sospesi ad ammirarla, scoppiando ad ogni boccone in nuove risa ed applausi. Ogni cannolo costava otto soldi. Anche io partecipavo ormai da qualche minuto alla gioja e alle ansie di quella famigliola, quando m’udii chiamare da una voce che mi parve severa: – Dottore.... Era il commendator Pópoli, come ho detto, allora sindaco della mia città. Aveva fatto colazione in quei paraggi da un suo parente canonico nel capitolo di San Pietro, ed era anch’egli capitato lì pel caffè. Ma lo sperpero d’allegria, di cibo e di danaro di quei cinque popolani offendeva in lui il pubblico amministratore, tanto che mi trascinò via appena ebbe vuotata la sua tazza di “nero” e il suo bicchiere d’acqua. E solo quando fu sulla piazza, lontano da quello spettacolo di spensieratezza, mi chiese: —