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Quelli, laggiù, camminavano lenti gittando sulla ghiaja bianca le loro lunghe ombre nere che tagliavano per largo, a scacchi, i binari. Passarono alla larga, fingendo di non vedere nè Roncucci nè la madre. Il gatto li guardava, e d’un tratto si dette a correre verso la coda del gruppo e si fermò prudente a quattro o cinque metri da loro. Uno che era rimasto indietro come per caso, procedendo ciondoloni, l’aria distratta, le mani nelle tasche dei pantaloni, si volse a lui d’improvviso, gli sorrise e gli gittò una cartata d’ossi dietro un palo della luce elettrica. Roncucci che aveva veduto, m’avverti sottovoce: – Quello la pensa come me, ma ha paura e non osa sfogarsi che col gatto. Nestore m’aveva raggiunto, una giacca di tela azzurra bisunta sopra un maglione nero, e ci avviammo verso la stazione. Era lieto e sereno come sempre. Mi chiese della madre, m’annunciò che a fine di settimana sarebbe venuto a casa per due giorni. Io non volevo parlargli della mia nomina e della sua intrusione finchè non fossimo stati soli sul piazzale esterno. Eravamo appena entrati sotto la tettoja quando di corsa riapparve il gatto bianco. Non s’avvicinava ma ci fissava. Nestore lo guardò con la coda dell’occhio e, quando fu vicino alla ritirata, si scusò di lasciarmi un momento e v’entrò. Il gatto lo seguì e, con commozione di padre e soddisfazione di borghese, vidi che anche Nestore trasse di tasca un cartoccio per lui con ossa di pollo e bucce di formaggio e glielo depose delicatamente in un angolo e lo accarezzò affettuoso.