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me da te, una foglia da una foglia, una goccia da un’altra, e in una goccia un mondo. Poeti, innamorati, artisti: e aggiungerei noi medici, se anche i fedeli della nuova religione non avessero paura della morte, e perciò bisogno di noi, e perciò rispetto di noi. La dea Macchina non ha paura della morte. Gli uomini, sì. Ma non verrà proprio da questo la loro salvezza, dalla paura cioè di soffrire e di morire? Vidi tornare lungo il binario, dal lontano capannone delle locomotive, il povero Roncucci che con la destra si reggeva contro il petto la mano mutilata e l’avambraccio fiaccato come portasse un bambino addormentato. La guerra, in fondo, non aveva voluto ridurre anch’essa gli uomini irreggimentati e numerati a projettili, a leve, a catapulte? Non aveva dunque ajutato il sorgere del nuovo mito, l’avvento della nuova divinità? Roncucci m’annunciò che macchinisti e fuochisti dentro quel loro nero capannone a basilica erano raccolti a discutere su non so che elezione, sciopero o protesta; e Nestore in quel momento arringava i compagni. Ma appena egli si fosse taciuto, un compagno gli avrebbe annunciato che io lo aspettavo. Roncucci entrò nella barracchetta e preso un altro sgabello mi si sedette vicino. Aveva scomodato un gatto bianco, grasso come una palla, e il gatto dopo due sbadigli gli saltò in grembo, s’aggomitolò e si riaddormentò. Egli lo accarezzava col guantone logoro in cui teneva chiuso quel po’ che gli restava della sua mano sinistra: — Lo sa, dottore, che questo gatto si chiama Spia?