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attimo di turbamento; e poichè da lui lo sguardo della donna fatto così grave e lento passò su me e si fissò sui miei occhi, parve che ella mi dicesse: – La colpa è tutta mia. Non se la prenda con questo ragazzo. Io ho trentacinque anni e lui ventiquattro. Forse a confessare proprio d’avere trentacinque anni Cencina non sarebbe arrivata nemmeno in un frangente come quello, ma è certo che quello sguardo mi disarmò. E poi di che avrei potuto armarmi io? Solo del diritto del padrone di casa a non volere che certi giochi giovanili si compiano nell’austerità del santuario domestico. Ma erano argomenti da notajo. S’aggiunga che io stesso mi trovavo in pantofole e maniche di camicia: veste inadatta a qualunque giudice o notajo. Tutte le quali belle considerazioni, sguardi, affetti, constatazioni ed ipotetiche dichiarazioni durarono, si capisce, pochi secondi. Cencina abbassò gli occhi, poggiò la destra sulla palma della sinistra, e si guardò le unghie. Aveva l’aria di dire: – Questo signore quanto tempo resterà qui? Infatti me ne andai. Ma con lo scossone dato alla porta avevo fatto cadere da un attaccapanni la veste di Cencina, proprio quella veste color di pallida viola con cui ella era apparsa tanto bella e tanto compunta ai funerali di Tocci che non era morto. Me la trovai fra i piedi uscendo e la raccattai e la riappesi, alla meglio. Appena fui sulle scale, quel gesto involontario mi dispiacque, m’umiliò, m’avvelenò la soddisfazione d’orgoglio che ha sempre chi sorprende