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le scale del vecchio tarlato palazzo Zatti-Cantelli, e andò con le lagrime agli occhi a baciare la convalescente, e la chiamò “figlia mia”. Era passata meno d’una settimana da queste effusioni le quali avevano attirato sulla nostra città l’attenzione di tutte le anime sensibili (tu, lettor mio, se hai tempo, puoi constatarlo leggendo, ad esempio, la collezione del Giornale d’Italia di quei giorni e la grande inchiesta da esso fatta sulla proposta d’un suo lettore che alle fidanzate dei morti in guerra venisse per legge concesso il diritto di portare il nome del loro fidanzato come se lo avessero sposato in tempo), quando una mattina a colazione giunse all’ingegner Tocci un telegramma di suo figlio che annunciava il suo arrivo fra tre giorni. Risuscitato? Giovanni era stato fatto prigioniero e, durante la battaglia, rinchiuso con altri dei nostri in una casa di Nervesa che aveva ancóra a terreno una camera in piedi. Nel cortile di quella casa egli aveva trovato il cadavere d’un ufficiale nemico, della sua statura; s’era vestito con la divisa di lui; e nella ritirata, anzi fuga degli austriaci aveva traversato il Piave sotto le raffiche dei nostri projettili, incolume. Di là, nella confusione della disfatta era riuscito a correre fino a Susegana, a Conegliano, a Vittorio, per raccogliere notizie; e una notte sotto il ponte di Vidòr crollato per metà era tornato di qua nelle nostre linee. Ora, proposto per una medaglia d’argento (anzi dicevano d’oro) e per la promozione a capitano, tornava sano e salvo a casa, in breve licenza.