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travolto nella tragedia. Quella mattina lei aveva supplicato la madre di lasciarla andare alla messa funebre. Madre e padre, inesorabili a dire no. E lei aveva pensato d’uccidersi, lasciando una lettera in cui, al solito, povera figlia, memore delle tante cronache e cinematografie d’innamorati “uniti nella vita e nella morte”, chiedeva d’essere sepolta accanto al suo fidanzato appena la salma fosse tornata in patria. Ed era una ragazza fiorosa, dalle spalle quadre, dallo labbra tumide, dalle braccia sode che avrebbe saputo tener ferma sulla sua spalla la testa del suo bel ginnasta. Un’ora dopo tutta la città sapeva del tentato suicidio. La signora Tocci andò a trovare la fidanzata del suo Giovanni. I giornali narrarono ogni particolare della scena. Nessuno pensò più a Cencina se non per sorriderne. Fu attribuita a lei e al suo dispetto la diceria che súbito corse fra gli scettici: essersi la ragazza spinta a quell’estremo perchè l’ultima volta che il Tocci era venuto in licenza gli si era abbandonata senza quelle cautele con cui devono abbandonarsi agli uomini le ragazze di buona famiglia. Il padre di Giovanni tornò dopo cinque giorni. Non gli avevano permesso d’andare oltre Montebelluna; ma molti generali e colonnelli gli avevano promesso d’avvertirlo appena nel groviglio delle macerie, dei reticolati e dei cadaveri, sarebbe stato rinvenuto il corpo di suo figlio. E appena tornato, sospinto dall’onda di commozione che agitava il cuore di tutti, ricchi e poveri, neutralisti e interventisti, anch’egli salì