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sorrideva. Non se n’era trovati altri; e quell’ingrandimento, con la speranza di venderne molte copie, l’aveva donato il fotografo che è ai Giardini. C’era chi si scandalizzava per quell’effigie ridente nel centro d’un mortorio, sul catafalco. A me piaceva: ve lo ritrovavo sereno, possente, noncurante della morte, vivo. E la guardai durante tutta la cerimonia, e così me l’immaginavo trascorrente nel fumo e nel fragore della battaglia, perfetto, tutt’i muscoli in gioco concordi, dall’alluce alla nuca. A un punto tutti si volsero verso la navata di destra: entrava la signora Cencina in viola chiaro, d’una seta dura, tutta a falpalà. Pareva una grande violetta di Parma. Quando giunse in cima alla navata, ai piedi d’un altare, e le offrirono un inginocchiatoio, cadde genuflessa, abbassò il volto, e non si mosse più. Restò così anche quando fu finita la messa, e la chiesa si vuotò. Qualcuno (io fra gli altri) senza maligna intenzione si trattenne a guardarla. Poi sentimmo d’essere indiscreti; e anche noi uscimmo, lasciandoci dietro nel gran tempio vuoto, sotto le nuvole d’incenso ormai salite a velare i vetri delle finestre sotto la cupola, il catafalco e quella povera donna. Dolore sincero? Desiderio d’un po’ di gloria per riflesso? Certo, ella non poteva trovare un modo più gentile e, nello stesso tempo, più franco per confessare che Tocci era stato il suo amante. Ma ero appena uscito sulla piazza del duomo, quando una donna venne correndo a chiedermi