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requisizioni, spiegandomi così l’ospitalità che ella aveva dovuto concedere alle ricchezze della cantina del sindaco. Possedeva tre o quattro biglietti di lei a Nestore, brevi ma espliciti, su carta profumata, d’una calligrafia da educanda, con un frasario da corrispondenza a pagamento, tutto puntini ed esclamazioni, sia che la piena dell’affetto non permettesse a Cencina di camminare coi passi misurati della sintassi ordinaria, sia che ella tra tante e ansiose occupazioni non avesse mai potuto attendere allo studio del periodo e delle sue parti. Giacinta teneva quei biglietti nascosti nel suo canterano, non so perchè, sotto le sue camice, dentro un libretto della Cassa di Risparmio; e, appena me le ebbe mostrate, ve le richiuse e con la chiave nella toppa scosse il cassetto per assicurarsi che la serratura avesse fatto il suo dovere e niuno potesse rubarle quei documenti dell’ascensione di Nestore. Altro ella stessa non mi seppe o non mi volle dire; nè io, per raccogliere notizie più precise, potevo correre la città e interrogare i passanti. Il fatto si è che mia moglie ed io d’una cosa eravamo contenti: di vedere che Nestore socialista ufficiale restava borghese almeno in amore, che è poi quel che conta. La differenza era che Giacinta pensava che Nestore fosse stato il conquistatore; e io, che fosse stato il conquistato. Ma avemmo il buon senso di non perderci a discutere un problema che nemmeno i due amanti, al punto cui con reciproca soddisfazione erano giunti, avrebbero saputo risolvere. Io però continuavo a pormi un altro problema: