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non hanno mai potato accusare la signora Cencina (che in quei giorni di cerimonia tutti torniamo a chiamare la signora Vincenza Pópoli, e anche donna Vincenza) d’una sola reale debolezza verso quei forestieri. Sorrisi, languide occhiate, scollature da statua greca, strette di mano che pajono giuramenti, scambii di fiori solenni come consegne di bandiere, ai più audaci un colpo coi guanti o col ventaglio come a cagnolini troppo affettuosi che vogliano saltarle in grembo: e niente altro. Le sue passioni, capricci e liberalità sono tutte locali: non vanno oltre i confini del circondario. E ciò lusinga, alla fine, il nostro amor proprio, dà alla bellezza della signora Cencina un che d’uso civico, adatto ai tempi, democratici insieme e gelosi d’ogni diritto. Purtroppo a formarle questa rinomanza e questa gentile popolarità è occorso qualche anno: e ormai la signora Cencina scivola sui trentacinque e, a detta di chi se ne intende, s’ingrassa un po’ troppo. Ma non è donna da dolersene e da far cure per dimagrare. S’adatta anche a questa novità del suo corpo, sorridendo e sapendo per lunga esperienza che ella non potrà mai lottare contro di lui e che, quand’esso comanda e chiede un bacio o un gelato, una carezza o un’ala di pollo, a lei, Cencina, non spetta che obbedire, abbassando gli occhi. Come e quando le venne la curiosità di conoscere, per dirla in biblico, anche mio figlio Nestore? Mia moglie me lo annunciò, direi, ufficialmente l’estate scorsa, dopo i saccheggi e le