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Roma, marzo del ’95.



Eravamo l’altra sera nel salottino azzurro del teatro Drammatico Nazionale. La sua compagnia rappresentava, per la quarta o quinta volta, Serenissima. Di quando in quando un attore truccato, un macchinista, un impiegato entravano a domandargli una notizia, un consiglio.

Si udivano le voci alte dei comici di là delle quinte, e la loro sonorità faceva sentire la vastità della sala, cui esse si indirizzavano. Due o tre volte giunsero gli applausi fragorosi, con quel distinto rumore di grandine scrosciante su terra soda; più volte si udì una risata limpida come di uno che rida in una grande aula vuota.