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libro nono 257

Che le nostre cervella, e in un la nave
Sfracellerà: tanto colui dardeggia.645
L’alto mio cor non si piegava. Quindi,
Ciclope, io dissi con lo sdegno in petto,
Se della notte, in che or tu giaci, alcuno
Ti chiederà, gli narrerai, che Ulisse
D’Itaca abitator, figlio a Laerte,650
Struggitor di cittadi, il dì ti tolse.
     Egli allora, ululando, Ohimè! rispose,
Da’ prischi vaticinj eccomi côlto.
Indovino era qui, prode uomo e illustre,
Telemo, figliuol d’Eurimo, che avea655
Dell’arte il pregio, ed ai Ciclopi in mezzo
Profetando invecchiava. Ei queste cose
Mi presagì: mi presagì, che il caro
Lume dell’occhio spegneriami Ulisse.
Se non ch’io sempre uom gigantesco, e bello,660
E di forze invincibili dotato,
Rimirar m’aspettava; ed ecco in vece
La pupilla smorzarmi un piccoletto
Greco, ed imbelle, che col vin mi vinse.
Ma qua, su via, vientene, Ulisse, ch’io665
Ti porga l’ospital dono, e Nettuno
Di fortunare il tuo ritorno prieghi.
Io di lui nacqui, ed ei sen vanta, e solo,