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prefazione xiii

pochi, che forse mi avanzavano, necessariamente meno vivi e vitali, che cosa di meglio e di più avrei potuto fare? Tristo e nero, or preceduto e or seguito da un mio fido compagno, un mattino io presi per un’erta solitaria, poco lontano da casa mia. Guardavo i ciottoli. Di lì a poco alzai gli occhi: una grande croce di sasso era avanti me.

E io mi fermai a quella croce che è il grande segnacolo dell’umanità; dell’umanità che tale è in quanto rinunzia, in parte o in tutto, a ciò che par la legge di tutte le esistenze; alla lotta, vale a dire, per sè. Mi fermai, e mi volsi. La grande città si stendeva ai piedi di quella croce, e cominciava a due passi di lì; eppure pareva tutta quanta lontana: come se io la vedessi in sogno. Non la vedeva tutta, ma quanto vedeva, era essa, sì che pareva infinita. Una leggiera nebbia ondeggiava su lei, e s’indorava un poco al pallido sole invernale. Si distinguevano le grandi masse dei templi e le alte torri: proprio in faccia a me il sottile stelo dell’Asinella feriva di tra la nebbietta l’aria turchina. Qua e là un fioco e dolce suon di campane pareva la voce della poesia sull’immobilità della storia.

E la mia vecchia Bologna mi parlò al cuore, e mi parve che dicesse: «Non vedi? Sono