Pagina:Odi di Pindaro (Romagnoli) II.djvu/97

94 LE ODI DI PINDARO


(cfr. pag. 359): non è affar mio raccontare simili scempî; ma se invece bisogna esaltare o prospera fortuna, o gagliardia di mani, o valore guerresco, io son pronto e volonteroso (7-25).

Cosí furon pronte e volonterose (ecco l’appiccàgnolo artificioso) le Muse che accorsero sul Pelio a cantare l’epitalamio per Peleo. E narrarono com’egli aveva resistito alle lusinghe di Ippolita sposa d’Acasto: onde Giove lo compensò dandogli sposa Tètide, la divina figlia di Pèleo, ottenendo il consenso di Posídone, che spesso viene su l’Istmo (ecco un nuovo appiccàgnolo simile al precedente) (26-44).

Qui si celebrano le gare istmiche dove ha già trionfato Eutímene, zio materno del vincitore, che adesso festosamente accoglie il nipote che ha seguite le sue tracce, trionfando in Nemea. Del resto, aveva già vinto nei giuochi di Egina, e presso il colle di Niso, a Megara, nelle gare fra giovinetti (54-55).

Ora Pitea non fu sconoscente: ricordò che, se ha vinto, lo deve agli ammaestramenti del suo maestro, l’atleta ateniese Menandro (55-56).

O canzone, se tu giungi sino nel regno dei defunti, all’orecchio dell’avo Temistio, non esser fioca: bensí canta le vittorie da lui riportate in Egina (l’atrio d’Eaco) e in Epidauro (57-63).

Ad apprezzare debitamente quest’ode bisogna intendere e figurarsi bene la immagine che tutta la domina. La canzone, dunque, deve diffonder la notizia della vittoria da Egina verso ogni plaga del mondo. Essa, è, secondo il solito procedimento, personificata: come nella Olimpia III, v. 9:

un grido a me Pisa lanciò,
da cui verso gli uomini balzano i canti largiti dai Numi.