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Pei vincitori tebani Pindaro scrisse, o, meglio, ci rimangono quattro odi. E in una di esse, il poeta assevera che per lui il pensiero della patria va sopra ogni altro (Istmica I, v. I):

Madre mia, Tebe dal clipeo d’or, le tue gesta
preporre a ogni cómpito io voglio.
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .
Cosa piú cara, pei buoni, v’ha di chi a luce lo diede?

Ma, ad onta di tale affermazione, non direi che nelle odi tebane culmini o arda la ispirazione del poeta. Neppure vanno tra le scadenti. Ma, per quanto Pindaro chiami da sé mirabile l’ode per Melisso (Istmica III, 47), in complesso non reggono il confronto con le siciliane, con le cirenaiche, con quella scritta per Rodi.

È anche notevole la scarsità dei miti. Poche città della Grecia potevano emulare, per ricchezza mitica, la città di Cadmo; e nella introduzione alla ode per Strepsiade, il poeta si mostra come smarrito in mezzo a tanta abbondanza. Ma di tale abbondanza non fruisce né in questa né nelle altre odi di questo gruppo. Anzi, ricorre spesso a miti ed eroi forestieri: Clitennestra, Oreste, Arsinoe (Pitica XI, 20), Agamennone e Cassandra (ivi, 38), Pegaso e Bellerofonte (Istmica VII, 55), Aiace (Istmica III, 63). E tanto questi quanto i miti che