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Pindaro invoca Semèle ed Ino, le eroine tebane di Cadmo e di Armonia, e Alcmena, madre di Eracle, il sommo eroe di Tebe, perché vengano nel santuario d’Apollo Ismenio (presso Melia: Melia era una Ninfa, che, amata da Apollo, generò Tènero, l’indovino che dava i responsi in questo santuario) a levare un inno vespertino a gloria di Tèmide e di Delfi, umbilico del mondo, per onorare Trasidèo, il giovinetto tebano, che aggiunse una terza corona alle due guadagnate dal padre Pitonico, trionfando a Delfi, nella Fòcide, patria di Pilade, dell’ospite di Oreste (1-19).

Giunto, con questi artificiosi passaggi, all’eroe argivo, Pindaro narra il notissimo mito degli Atridi. Quando Clitennestra uccise Agamennone e Cassandra, la nutrice Arsinoe mise in salvo il bambinello Oreste, che fu cresciuto presso Strofio, e, fatto adulto, tornò in patria, e vendicò il padre, uccidendo la madre stessa ed Egisto (20-53).

Con uno dei passaggi abituali, Pindaro rimprovera sé stesso d’aver divagato, e si richiama all’argomento, all’elogio dei vincitori (47-53).

Pitonico, il padre, vinse ad Olimpia e a Pito, Trasideo a Pito (56-63).

Nella chiusa, appaiono le solite riflessioni. Si biasimano i regnanti che lasciano trionfare la mediocrità a danno del vero merito; e si esalta chi riesce a respingere le offese del-