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Non è molto sicura la data di questa ode: anzi v’è gran discordia fra i commentatori. Il Fraccaroli, in base alla tecnica, la giudica del miglior periodo di Pindaro; e, mi pare, a ragione. Eccone il riassunto.

La gioventú induce all’amore con varia foga: la miglior cosa è cogliere il momento propizio per gli amori fausti, come quello che strinse Giove alla ninfa Egina, onde nacque Eaco, l’eroe il quale ebbe tanto senno, che accorrevano a lui, perché dirimesse le loro liti, tutti i vicini, e gli Ateniesi e gli Spartani (1-14).

E anch’io — dice Pindaro — vengo riverente a prostrarmi dinanzi la tomba dell’eroe, recandogli un canto di modo lidio — una benda succinta di Lidia — in gloria di Dinide che ha vinto allo stadio, e di Mega suo padre, già spento. La loro fortuna è stata dunque fondata col favore dei Numi: è di quelle che durano: come durò quella di Ciniro re di Cipro (v. 15-21).

Pericoloso è dire cose nuove. Ché l’invidia è pronta sempre a dare addosso ai valorosi. E cosí Aiace, tanto piú valoroso, ma tanto meno eloquente e mestatore di Ulisse, dovette soccombere nella gara per le armi di Achille. Onde poi si uccise (v. 22-40).

Gl’invidi son dunque pronti sempre a deprimere chi brilla, ad esaltare i mediocri. Pindaro no, non è di questi: elogia