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130 LE ODI DI PINDARO


pericolose, e lí, mentre dormiva, gli nascose o gli sottrasse la spada, e lo abbandonò, che divenisse preda alle fiere. Ma Chirone accorse, e gli procurò una nuova spada. Ed ebbe poi dai Numi la divina Tetide, che, del resto, gli diede molto da fare, poiché quando egli la ghermí si trasformò via via in leone, in serpe, in fuoco. Ma Peleo tenne duro: ebbe la fanciulla, e vide l’Olimpo (63-76).

Ma bisogna tornare all’argomento: cantare i Teandridi. Timasarco ha vinto ora: il suo zio materno Callide aveva già vinto in altri tempi sull’Istmo; e per lui compose l’epinicio il padre suo Eufane. Ognuno canta meglio quello che ha visto coi propri occhi. Ma certo avrebbe buon giuoco chi cantasse Melesia, il maestro di Timasarco».

Come si vede, la parte mitica di questa ode è intessuta di motivi già svolti: la calunnia di Ippolito contro Peleo: le gesta di Laomedonte contro i Troiani: i Meropi: Alcioneo (I. V).

L’atteggiamento 49-62 (la enumerazione di luoghi celebri per gli Eacidi) ricorda quello 33-39 della Istmia V. La uscita: «non posso cantare tutte le glorie degli Eacidi e torno al vincitore», si riscontra identica nella Istmia VI, 58.

Da notare è la strana figura per cui, invece di pensare che noi avanziamo verso il futuro, si immagina che questo muova, dalle buie profondità del tempo infinito, verso noi (v. 46).

Negli ultimi quattro versi l’ufficio del cantore è paragonato a quello dell’atleta: chi lotta per lodare Melesia, trova tal soggetto da trionfare pienamente sui rivali (cantati da altri).