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L’Efarmosto di questo epinicio aveva riportato un numero di vittorie veramente straordinario: e due in un sola olimpiade, l’una in Olimpia, l’altra a Pito: gloria, che, a dire di Pindaro, non era toccata a nessun mortale. Subito dopo la vittoria olimpia, bastò pel vincitore la canzone d’Archiloco, quella che si cantava per tutti; ma ora (466) Pindaro compone per lui il debito epinicio. E, al solito, i versi sono frecce, e la cosa da cantare è la mèta: quindi Pindaro parla di saettare Giove, l’Elide, Pito, e il vincitore, e suo padre, e la loro patria, Opunte, sacra a Giustizia e madre di Locri Opunzia, che adesso viene esaltata presso l’Alfeo. Grazie al canto di Pindaro, la fama di cosí nobile città sarà sparsa per tutta la terra (1-25). Se pure, aggiunge il poeta, io sono giardiniere del verziere delle Grazie: le quali danno agli uomini il piacere: ché quanto posseggono gli uomini, e bene e saggezza, proviene dai Numi.

Con questo artificioso trapasso Pindaro accenna ad un mito che prova l’ultimo asserto: al mito, molto oscuro, di Eracle che da solo tenne testa a tre Numi: Posídone, Febo, Ade. Ma, accennatolo appena, lo abbandona come troppo empio (26-41).

E passa invece a cantare Opunte (la città di Protogenia = la Prima nata: dal nome nacque forse il mito), dove Pirra e Deucalione, scesi dal Parnaso dopo il diluvio univer-