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206 LE ODI DI PINDARO

sultare l’oracolo se c’era il mezzo di migliorare la propria voce, si sarebbe sentito salutare signore di Cirene: onde la fortunata emigrazione in Libia, donde ebbe origine la gloria dei re di Cirene.

A questi fatti, dunque, accenna Pindaro nella prima parte dell'ode, con un disordine che non dovè troppo imbarazzare gli uditori che conoscevano a menadito quelle loro leggende. «Oh Musa, sciogli un canto ad Apollo e Diana e a Pito: a Pito, dove la profetessa d’Apollo predisse che Batto sarebbe partito da Tera per fondare Cirene, e che cosí si sarebbe compiuta la profezia di Medea a Tera (1-13).» Segue la profezia, nella quale vengono esposti fatti, da quando gli Argonauti abbandonano la Colchide, fino al momento in cui presso Tera cade la zolla fatale (12-58). Qui prende di nuovo la parola il poeta, e narra come otto generazioni dopo Batto regni floridamente Arcesilao, che ora ha vinto nei giuochi pitici (59-67). E Pindaro, per celebrare la sua grandezza, canterà del vello d’oro; ché appunto la fortuna dei Battiadi cominciò da quella spedizione (67-69).

Dal verso 70 al 245 si stende, ricca di forti colori, tutta la storia degli Argonauti. Al verso 240, col solito trapasso, Pindaro osserva che s’è lasciato trascinar troppo lontano dal suo soggetto. Sicché espone brevissimamente tutti i fatti rimanenti, sino al momento in cui gli Argonauti giacquero con le donne di Lemno. (E da una di esse, Malache, Eufemo ebbe Leucofane, madre di Aristotele, progenitore dei Battiadi). Eufemo andò poi a Sparta, ove vissero i suoi discendenti, che, dopo quattro generazioni, come dicemmo, passarono a Tera, e di lí a Cirene (246-262).

Anche la chiusa è assai chiara, sebbene non siamo in grado di illuminarne precisamente i particolari storici. Un tal Demòfilo era stato bandito da Cirene per cause politiche, e s’era rifugiato in Tebe, dove aveva conosciuto Pindaro e apprezzata