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ODE OLIMPIA IV 127

tibile scegliere per tale viaggio le mule che hanno vinto; e osservo questo, perché il lettore moderno sappia che Pindaro concepí e disse proprio cosí. — Pitane, al solito, è tanto la Ninfa quanto la località che ella protegge. Naturalmente, questa diede origine a quella; ma la leggenda antica narrava il contrario. — La famosa immagine della cote e della lingua (v. 82) è piú chiara che non sembri forse ai commentatori. Come nella Pitia 1ª (v. 112) la lingua si deve batter su l’incudine, sí che ne riesca ben temperata, al pari di un brando, cosí qui essa è sfiorata da una cote, sí che ne riesce, come una spada, affilata. — Chi sia l’Enea del verso 87, si capisce poco; e tralascio un indovinello connesso ad un epiteto dato a questo Enea: la mia traduzione dice senz’altro a quelli del mestiere come io intendo. — A significare la grossezza dei Beoti, i Greci dicevano spicci spicci: Beozia porca! (v. 88). — Il poeta immagina poi che il tempo futuro scivoli contro il presente, e non già che questo corra a perdersi in quello. —

Osserviamo ancora che qui Pindaro riprende magnificamente i due motivi già svolti altrove, degli eroi dinanzi a Tebe, e della invocazione notturna d’un eroe su l’acque.

A nessuno passi poi per la mente che il colorito tutto moderno della scena di Viamo nel bosco dipenda in parte dalla mia versione. Ecco il testo:

                                                                                αλλ’ ἐν
κέκρυπτο γὰρ σχοίνῳ βατίᾳ τ’ ἐν ἀπειράτῳ ἴων ξανθαῖσι
καὶ παμπορφύροις ἀκτῖσι βεβρεγμένος άβρὸν σῶμα.

Giova ricordare una pittura simile dello Shelley:

And on the stream whose inconstant bosom
Was pranked under boughs of embowering blossom,