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ODE PITIA I 113


gurio che subito dopo il poeta rivolge a sé stesso, di mantenersi pari all’altezza del tema che deve trattare.

È notevole che in tutti e tre gli epinici piú importanti composti per Ierone (la Pitia III, come vedremo, va considerata sotto luce speciale) ricorre il mito di una creatura ribelle in qualche modo alla legge di Giove e punita: Issione, Tantalo, Tifone. Anche Tifone deve qui simboleggiare qualcuno. Al solito, non c’ingolferemo in una insolubile quistione. Né dall’ignorare particolari precisi riesce menomata la divina bellezza di questa celeberrima introduzione: bellezza tale, che gitta ombra sul resto. Ma anche il resto fa impressione grandiosa, se si riesce ad afferrare i piani principali, un po’ nascosti sotto un frastaglio troppo lussureggiante. Non credo, per esempio, che sia in genere osservata l’efficacia del trapasso (v. 39-40), che, dopo tanto frastuono, con soave modulazione, trasporta dal mondo della fantasia a quello della realtà.

Qualche osservazione sporadica. Il passo è concepito come uditivo, quindi ha orecchie (v. 3). Tifone è immaginato prima sdraiato da Cuma all’Etna (v. 24-26), poi steso dalla cima alle falde del monte (v. 36-38). L’Etna è la parte piú alta, dunque la fronte, della Sicilia (v. 41).

La città d’Etna non fu arrisa dalla sorte come Pindaro augurava. Nel 461 essa fu restituita ai suoi antichi abitanti. A sua memoria rimase, oltre che questa ode prodigiosa, un bellissimo tetradramma d’argento, coniato in quest’epoca. Da una parte è una testa di Sileno, calvo e barbuto, con sotto uno dei famosi scarabei dell’Etna; dall’altra Giove Etneo, su un trono, col folgore in pugno, poggiato a un ceppo di vite; nel campo libero, un’aquila poggia sulla vetta d’un pino. Il Gaspar poi, opina, ed è ipotesi ben fondata e suggestiva, che sia stato scolpito per commemorare questa vittoria il famosissimo auriga di Delfi.

Pindaro - Le Odi, l - 8