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Senza nessuna ragione quest’ode fu dai grammatici compresa fra le Nemee. Fu scritta per una vittoria riportata nei giuochi di Sicione, fondati da Adrasto in onore di Febo e della sorella sua Artemide (v. 5 e 12), súbito dopo la fondazione d’Etna (476-5). Non è composta in sistemi, bensí in strofe.

Alle solite lodi al vincitore (v. 1-14) segue il mito di Adrasto. I figli di Talao (v. 19) cioè Adrasto ed i suoi fratelli, antichi re d’Argo, fiaccati in lotta civile da Anfiarao, avevano dovuto abbandonare la patria. Adrasto, venuto a Sicione, ed eletto signore della città, le die’ vita novella con feste e con gare; e fondò i giuochi sacri ad Apollo. Poi si rappattumò anche con Anfiarao, dandogli sposa la sorella Erifila; ed insieme presero parte alla impresa condotta da Polinice, il fatale figlio d’Edipo, contro Tebe. La spedizione, incominciata con tristi auspicî, fallí. Lo stesso Anfiarao, colto da pànico, si diede alla fuga; e Periclimeno lo avrebbe trafitto alle spalle, se Giove, scagliando una folgore, non gli avesse risparmiata l’onta, facendogli sprofondar sotto i piedi la terra (v. 15-39). Qui il poeta prega Giove che tenga lontano dalla nuova città un pericolo di feroce mischia, e le dia pace e prosperità durevole, perché gli Etnei, oltre a tante altre belle doti, sono insigni per disinteresse (v. 39-46). Prova ne è Cromio, che si condusse come tutti sanno nelle tante guerre affrontate. L’elogio