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un rumore confuso di finestre che si aprono e si richiudono con fracasso, di carrozze che corrono all’indiavolata, di fruste che schioccano allegramente, e un fruscìo di sottane strascicate e chiaccherine, è uno scalpiccìo di passi frettolosi, e un bisbigliare pettegolo di voci adulte e infantili, tramezzato di tanto in tanto da qualche sonoro sbadiglio, inelegante protesta di sonni non soddisfatti, o da qualche nota gutturale e inarmonica, indizio sicuro di vino mal bevuto e mal digerito.
Questo rumore cresce a poco a poco, finchè diventa un frastuono festivo. Allora la folla dimenticandosi lì per lì di essere uscita di casa vestita a lutto, s’incammina ciarlando, ridendo e masticando verso l’ultima dimora de’ suoi poveri morti. E, cosa singolare! framezzo a quella moltitudine di spensierati e di filosofi si vedono balenare qua e là dei visi consunti dal dolore, dei labbri contratti da uno spasimo senza fine, degli occhi rifiniti, che non hanno più lagrime per piangere. Ma questi originali, se Dio Vuole, si contano sulle dita, e nessuno li bada. Intanto, strada facendo, la gente si sofferma dinanzi ai banchi dei fiori, e chi compra un mazzo di viole e crisantemi, chi una ghirlanda di margherite e trofeoli, e chi una corona di zolfini, ossia una di quelle corone di fiorellini gialli, adorne d’iscrizioni in fiorellini neri, che dicono su per giù così: A mia moglie — A mio marito — A mio nipote — Al mio fidanzato — Alla mia fidanzata, e via di seguito. E lì, davanti a quelle paniere