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vivacità sulle sonanti costole dei cerimoniosi giumenti.
Ma questi erano passatempi elementari e divertimenti modestissimi di un tempo, in cui i fiorentini passavano per tanti filosofi di buon umore facilissimi a contentarsi, e ai quali, per essere la gente più beata e felice di questa terra, bastava un palio di barberi, il Corpo delle leggi leopoldine, in quarto d’agnello coi piselli mangiato alle Cascine per l’Ascensione, e una Granduchessa che partorisse almeno due volte l’anno.
Oggi, dopo la quadratura del circolo, non c’è un altro problema tanto difficile a sciogliersi, quanto quello di divertire e di tenere allegri i fiorentini apocrifi dell’ultimo scorcio del secolo decimonono.
Una vecchia antipatia.
Fosse mitezza d’animo o leggiadria d’ingegno o raffinatezza d’incivilimento o qualche altra quisquilia rettorica, fatto sta che i fiorentini, fra i varj popoli dello Stivale, furono i primi a gridare abbasso la ghigliottina.
Questa loro antipatia per la pena capitale apparve in ogni tempo così diffusa e pervicace, che lo stesso Granduca, ricordandosi che in fin dei conti egli non era altro che un forestiero a Firenze, dovè rassegnarsi a quel proverbio che dice «paese che vai, usanza che trovi» e finì anche lui col non parlar più nè del boia nè d’altre porcherie.