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In quel tempo, quando un fiorentino sentiva per caso in sè tanta forza da dire addio con ciglio asciutto alla patria diletta, al dolce tetto natìo e alla cara e tenera famigliuola, la prima cosa che si attentava a fare era quella di muovere, in carovana, verso la mille volte sospirata labronica spiaggia.

Tre ragioni potentissime, imperiose, irresistibili lo spingevano a questo passo:

— vedere il mare;

— fare degli studj comparativi fra il pane dell’istruzione e i maccheroni dei cavallegeri, e

— contemplare da vicino la nave ammiraglia «il Giglio», nave formidabile, che sotto le mentite apparenze di una scatola di pasta sfoglia dorata, rappresentava da sè sola tutta la marina militare etrusca; preistorica nave, sulla quale i nostri archeologi avevano rintracciato alcune penne benissimo conservate, cadute probabilmente alla colomba del diluvio, quando tornò colla ciocca d’ulivo nel becco, per far capire a Noè che oramai era spiovuto e che lui poteva chiudere l’ombrello e scendere a terra.

Appena il fiorentino, reduce dal suo pellegrinaggio a Livorno, rimetteva i piedi sulla soglia domestica, tutti gli amici gli si affollavano dintorno domandandogli com’è naturale, fra le prime cose:

— Da’ retta Nanni, che è bello dimolto il mare?