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concimato e potato per conto dei granduca: un vegetabile, che nasceva e fioriva abbarbicato tenacemente fra le fessure del lastrico e dei marciapiedi della sua città.

Per toglierlo da Firenze e portarlo un chilometro più in là, bisognava svellerlo dalle radici; sbarbarlo addirittura.

Tutto il suo mondo finiva alle mura cittadine. Fuori delle mura quattro passi, cominciava per lui l’ignoto, il maraviglioso, il paese della favola e della leggenda.

La sua vita era monotona e regolata come un cronometro inglese. Durante il giorno lavorava, o stava a veder lavorare, le due sole maniere conosciute fin qui per guadagnarsi onestamente il pane. Venuta la sera, andava al Teatro o al Caffè: alle otto pigliava un poncino: dalle otto e mezzo alle dieci diceva male del Governo e del Municipio; e sonate le undici il Granduca gli spengeva i lumi nelle strade e lo mandava a dormire, perchè così avesse tutto il comodo di sognare a benefizio della I. e R. Amministrazione del lotto.

Il segno più caratteristico del vero fiorentino era la sua tradizionale antipatia per i viaggi, e in particolare per i lunghi viaggi.

Il fiorentino, bisogna rendergli questa giustizia, non è stato mai una rondine: anzi si può dire a suo onore, che non ha mai avuto nulla di comune con le rondini; nemmeno la passione per le mosche. Basterebbe a provarlo quell’antichissimo proverbio, giunto fino a noi, che cantava