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cucco, la simpatia, il beniamino di tutti i pubblici dei teatri d’Italia. E si capisce, perchè non toccherebbe a me a dirlo, ma se domani, puta caso, morissero di accidente il Rossi e il Salvini, c’è poco da scegliere: non ci resto che io. Eppure questo pubblicaccio qui mi tiene il sussiego, si direbbe quasi che mi ha a noia.

— E il motivo?...

— Caro mio, questione di colore..., ci siamo intesi?... In politica io sono come il Trovatore del Verdi; io fremo!... E questo qui è un pubblico malvone, un pubblico d’impiegati governativi! Bisogna lasciargli il suo sfogo! Oh! ma quando lo voglio costringere a battermi le mani, altro se ce lo costringo! Quando io sono là, sui lumi della ribalta, e che voglio davvero l’applauso, a me non mi si dice di no.

— E dunque lei crede?...

— Il suo lavoro è un bel lavoro, e devo piacere. —

Intanto il capocomico chiama un servo di scena e gli domanda: — Come c’è gente in teatro?

— Così, così: un mezzo teatro appena.

— Me lo figuravo. Capisce eh, signor Autore? E lei avrebbe preteso per la sua commedia quattro o cinque prove di più? Sarebbero state spese bene come veriddio! Se lo so! coi lavorucci di questi principianti senza nome e senza credito, non si ripigliano i quattrini dei lumi.

L’autore, a questo complimento, rimane per cinque minuti fulminato e non dà segno di vita.