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Paragonate il loro numero minimo al numero di quelli che anno per anno lasciano gonfii di tutte le speranze le aule traditrici delle scuole d’arte pura. Dove sono gli altri?
Passate i confini. In qualunque esposizione straniera o nelle sale dei maggiori mercanti d’arte di Francia o d’Inghilterra o di Germania o d’America, quanti artisti italiani trovate? Quelli che sono stimati ottimi da noi, hanno una mezza fama soffocata subito dal grave confronto delle glorie straniere e mondiali. In questi ultimi anni ho veduto vendere a Parigi all’Hòtel Drouot un Michetti per trentacinque franchi, un Carlandi per quaranta, un Tito nella vendita Nobel per duecentocinquanta, un Filippo Palizzi per centoquaranta, un Esposito per quarantuna lira. Lo so: sono prezzi casuali, non prezzi normali. Ma dimostrano che i nostri migliori artisti - se ne eccettui un Segantini o un Morelli o un Boldini - non son riesciti a penetrare nel cuore e negli occhi del gran pubblico internazionale come Sargent o Zorn, come Besnard o Herkomer, come Lenbach o Whistler. E la domanda ritorna: dove finiscono, dove naufragano tutti i pittori che escono dalle nostre scuole, a cominciare dai nostri pensionati? Vogliamo dire che tutti rimangono incompresi, senza loro colpa, schiacciati dalla sorte iniqua? Diciamolo per amor di patria.
Ma se dall’amor di patria vogliamo scendere con umanità all’amor dell’individuo, è anche meglio dire e proclamare che nella professione dell’arte oggi le vittime son cento volte più frequenti che in tutte le altre professioni. Un giornalista o un ingegnere che diventino impiegati governativi, un militare che finisca ingegnere privato, un medico che vada a dirigere una fabbrica di prodotti chimici, un industriale che si muti in banchiere, un commerciante che si faccia agricoltore, possono nel cambio perdere o guadagnare denari, ma moralmente nulla perdono. Davanti alla loro coscienza e davanti alla società una sola decadenza sarebbe per loro penosa: quella dal lavoro all’ozio. E anche questa, se viene accompagnata da un buon tintinnio d’oro, è ammirata e applaudita e invidiata.
Ma l’artista che muta la sua professione, che rinuncia al suo sogno, è un uccello dalle ali mozze. Nè l’amore nè la ricchezza gli possono addolcir l'amarezza dell’esilio. Egli potrà corazzarsi di scetticismo e abbagliare gli spettatori col luccichio di questa corazza, ma la ferita sotto sanguinerà sempre. Anche se crederà di morire di fame, egli morrà di pena...
Ricordate il « Cigno » di Baudelaire?
Je pense è mon grand cygne, avec ses gestes fous,
Comme les exilés, ridicule et sublime...
Ugo Ojetti
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