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pur al colmo della loro potenza e del loro fasto, che l’arte fosse prima di tutto un mezzo di dominio, il miglior modo d’affermar sul popolo e nella storia la bellezza della propria grandezza, la via più sicura per convincere i sudditi all’obbedienza, gli stranieri e i posteri al rispetto o almeno all’ammirazione. Perciò l’arte parve - e non fu — un attributo dei potenti. Di questa teoria di governo lo Stato italiano non ha ereditato che la fastidiosa necessità di non abbandonar l’arte per non esser proclamato barbaro. E lo fa a malincuore. Un mal definito pregiudizio spesso fa anche pensare ai nostri governanti che la vera democrazia dovrebbe essere semplice e spartana, nuda da questi orpelli, aliena da questi lusinghevoli apparati...

E gli artisti privi, per legge, di ogni cultura, ancora ritti sui trampoli delle suddette majuscole e inebbriati dalla suddetta estetica teologica, messi fuori dalla vita, seguono naturalmente l’impulso dello stato: e si stimano un oggetto di lusso delicato, fragile e inutile. Guai a chi li tocca! Guai a chi li consiglia! Guai a chi si prova a mutarli gentilmente in fattori di utilità sociale! Se uno di essi si degna di dipingere il bozzetto di un cartellone o di disegnar la linea d’una sedia, se ne vanta come d’una benevola condiscendenza agl’importuni bisogni della folla.

Io dico della maggioranza e soprattutto degli artisti «arrivati ». I più giovani sentono ormai la sproporzione fra quel che le scuole loro insegnano e quel che loro domanda la società,, e s’agitano e tumultuano e protestano. Ma non vogliono ancora guardar il fondo del problema. La loro irrequietezza e il loro fastidio non derivano solo, com’essi pensano, dalla mancanza d’un professore, dalla pigrizia d’un altro, dall’insufficienza dei locali, dalla rilassatezza o dalla severità della disciplina. Tutto un fardello di pregiudizi essi devono scuotersi di dosso - pregiudizii estetici sulla superiorità delle arti pure, pregiudizii sociali po sull’inferiorità delle industrie artistiche, pregiudizii intellettuali sull’inutilità d’una cultura generale per essere capaci di creare con originalità, pregiudizii economici sulla bellezza di morir di fame maledicendo alla società matrigna...

Questo miracolo avverrà presto perchè la crisi è al suo apice, e i giovani che avranno lavorato a risolverla saranno davvero benemeriti dell’avvenire. Una ricerca essi dovrebbero intanto fare per convincersi che il disastro è imminente e per affrettarlo con prudente coraggio: domandare agli artisti della generazione precedente alla loro dove sieno andati a finire tutti i loro condiscepoli dell’Accademia. Su cento ne troveranno forse uno il cui nome ancòra appare con onore nelle esposizioni internazionali; uno o due che senza più dipingere o scolpire ancora figurano nelle commissioni ministeriali e nelle giurìe, soltanto perchè non lavorando più sono ingenuamente stimati giudici superiori alle piccole gare e alle ansie dell’emulazione; cinque o sei sparsi pel mondo a insegnare, cioè rifugiati ormai nell’aria tepida e mefitica d’un ufficio, con la sicurezza d’uno stipendio regolare e d’una pensione. Gli altri? Gli altri sono scomparsi.

L’arte, l’arte che s’insegna nelle Accademie, li ha uccisi.

Quando s’apre l’esposizione d’un nuovo concorso d’arte e il giurì lo manda a vuoto, come accade ormai novantanove volte su cento, stabilite una proporzione tra la quantità — e la qualità - dei più giovani concorrenti e la quantità degli studenti che negli ultimi dieci anni hanno frequentato le Accademie artistiche italiane. Dove sono scomparsi tutti quelli scultori e tutti quelli architetti? Perchè non concorrono? Nessuno lo sa più. La grande arte, il sogno della grande arte li ha uccisi prima che sieno riesciti ad afferrar la vita, cioè la vittoria.

Ad ogni nuova esposizione italiana importante, quanti nuovi artisti riescono con le loro opere a varcarne le soglie? Quanti, se vi riescono, rivelano con originalità, con modernità, con profondità la coscienza della loro forza e della loro giovinezza?


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