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m’inganno, a rinfrescare l’aria stanca della produzione estetica. Dimodochè non si deve confondere, per esempio, il carattere supremamente coloristico della pittura veneziana nei secoli XV e XVI, e il carattere di colorismo che si sforza oggi di rinnovare tutta la faccia dell’arte. La cresciuta sensibilità cromatica ha inventato le sfumature «antiche», ossia un certo delicato sbiadimento; ha dato il gusto mezzo smesso delle tinte assolute, insegnandone l’uso tanto più grato, quanto più sobrio; ha esteso la nozione armonica per la quale, invece d’estinguer lo spirito dei colori nel morto bigio, nel neutro, come si dice, essi vengono attenuati senza che ne scemi la trasparenza. E sta bene. Il colorismo è altrove. È nella sproporzione fra quel che si riesce ad esprimere e quel che si desidera esprimere. Sappiamo tutti che l’opera d’arte vera non ostenta, ma impone i suoi effetti: una prosa che faccia scorgere la propria agghindatura, finisce d’essere elegante; una poesia che mette in mostra la bellezza del verso, non è più verseggiata con perfezione.
Meglio che altrove, il fenomeno c’interessa nella letteratura, quantunque io creda non possa recar serio giovamento se non alla pittura e alla musica, le due arti in cui del resto imperversa con più furia ai nostri giorni, quelle che gli han dato la vita. La letteratura, si sa, è un vasto specchio nel quale le manifestazioni delle altre arti non possono non gittare per poco o per molto un riflesso. Gli scrittori quindi che in questi ultimi tempi usano o abusano del colore, lo fanno per riflesso musicale o per riflesso pittorico, fissato da un criterio erroneo. E ciò perchè l’ufficio della parola, pur senza avere la limitazione degli altri strumenti estetici, non può mai divenir quello della tavolozza o dell’orchestra, e perchè un valore ha la cosa e un altro ne ha il nome della cosa. Voglio dire che quando nominiamo il rosso, il giallo, l’azzurro, noi suggeriamo l’idea di questi colori, non la imponiamo ai sensi come mostrando la pennellata di cinabro, di croma, di cobalto. Perciò l’impressione sarà viva se il suggerimento si troverà. al suo giusto luogo, al suo preciso attimo, in accordo con quel che precede e quel che segue; e mancherà d’ogni efficacia o, peggio, stonerà, se messo fuori chiave. In termini più generali, la parola ha un significato diretto, quasi stabilmente convenuto (quasi, si badi), e un significato indiretto, o meglio un valore suggestivo, che varia volta per volta secondo il momento lirico, epico, drammatico. Indugiarsi, insistere sulla nota di colore è sempre inutile, spesso dannoso.
Mi accorgo di avere alternato e mischiato le espressioni musicali e le pittoriche. Ma come fare altrimenti? Non le ho inventate io le parole e le frasi che la musica ha tolto in prestito alla pittura e la pittura alla musica: tono, nota, disegno, colore, intonazione, e così via. Questa è una prova di più che la sensibilità cromatica, oggi straordinariamente raffinata, anela verso punti dell’orizzonte che ancora appena si possono intravedere.
Senza parlare dei tempi classici, - la cui nozione coloristica ci appare sommaria, tanto da lasciare incerti sull’apprezzamento dei singoli colori e del rapporto di essi con la luce, poichè sembra che i più caldi si confondessero appunto con la luce solare, i più freddi, con l’ombra notturna, - in tutta la letteratura fino ai nostri giorni la tavolozza verbale è incomparabilmente più limitata della moderna. Certo si possono trovare splendidi esempii di colore nei sommi poeti, ma si tratta di pennellate rarissime. Il famoso cenno del «Purgatorio» dantesco è quasi eccezionale.
Non avea pur natura ivi dipinto,
ma di soavità, di mille odori
vi faceva un incognito indistinto.
Altri luoghi in verità si potrebbero addurre dello stesso poeta, in prova del suo straordinario sentimento pittorico e musicale; ma citar Dante è divenuto ormai un incubo letterario, sì che non me ne sento il coraggio. Ne ricorderò dunque ancora due
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